Francesca Marino
Nata a Roma, diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia in Regia.
Le immagini fanno parte della mia vita da sempre, statiche o in movimento. Il ritratto è l’espressione della fotografia che più mi affascina.
La mia passione per il cinema e quella per la fotografia vanno di pari passo, si distaccano l’una dall’altra ma si uniscono allo stesso tempo in una cosa sola. Nella regia sono un po’ fotografa e nella fotografia sono un po’ regista. Adoro gli attori e principalmente mi occupo di servizi fotografici per il cinema.
Su Prime Video trovate la mia opera prima come regista " Blackout Love", prodotta da Matteo Rovere, con come protagonista Anna Foglietta e Alessandro Tedeschi.
Dal 29/07/2024, sempre su Prime Video uscirà la serie che ho coscritto e diretto, si chiama " Sul Più bello".
Le sliding doors di Francesca Marino
Fotografa da anni, ora regista debuttate, figlia d’arte con il timore di averne ereditato i vantaggi annessi, la regista esordisce con un’anti rom-com, ‘Blackout Love’ starring Anna Foglietta. Ma sogna l’action
intervista di Chiara Del Zanno su Rollingstones.
Per la fine delle riprese, Anna Foglietta le ha scritto un biglietto che Francesca conserva tuttora. Sopra si legge: «Ti sto lasciando con un post-it giallo. Però ti voglio bene». Per assurdo, in quella dedica di fine set c’è molto dell’esordio alla regia di Francesca Marino, ironico e tormentato: poi capirete. «Mi ha lasciata anche lei con un post-it», e ride di gusto mentre me lo racconta, ride per tutta l’intervista anche se da questa esperienza esce con un intervento alla schiena che ha segnato il suo addio alla pallavolo. E con un film che, senza volerlo, è diventato autobiografico.
Fotografa da anni, ora regista debuttante, figlia d’arte (di Umberto Marino) con il timore di averne ereditato i vantaggi annessi, Francesca Marino parte con un’opera prima che sorprende. Una commedia non-romantica che supera le sliding doors e trova un pretesto concreto per riscrivere le sorti di una relazione. La verità? Blackout love (su Amazon Prime Video) è una tirata d’orecchie scaltrissima. Una guida breve all’ascolto dell’altro che schiva molte delle stronzate che ci raccontano sull’amore 2.0. Se siete fortunati, dopo averlo visto penserete: «Che folli saremmo, a perderci oggi». Se vi andrà peggio, resterete con l’amaro in bocca: «Che scemi siamo stati a separarci per non aver saputo comunicare».
C’è moltissima verità nelle dinamiche di coppia che racconti. Quella di Blackout love sembra quasi una storia autobiografica.
La cosa assurda è che il film non è nato da uno spunto autobiografico, ma a una settimana dalle riprese sono diventata come Valeria, il mio personaggio. Insomma, senza saperlo abbiamo scritto una storia che si è trasformata nella mia storia.
Ah. Almeno è stata un’operazione catartica?
No, non lo è stata. Però il film ne ha guadagnato. Mi ha aiutato a immedesimarmi in Valeria come fosse una parte di me, rappresentava il mio dolore in tempo reale. Non a caso, per Anna Foglietta il mantra durante le riprese è stato: «Pensavo fosse un film più facile». Le ho fatto stampare pure una maglietta con questa frase.
Il post-it dell’addio, i dialoghi e le liti, il sesso consolatorio. Quanto peso hanno certi dettagli in un film come il tuo?
Moltissimo, sono quasi inevitabili. A un certo punto mi sono detta: è uno psicodramma? Allora cavalchiamolo. Chi mi conosce sa che la casa di Valeria è la riproduzione di casa mia. Che quel libro è stato regalato a me quando avevo 17 anni. Che la data d’anniversario e le foto sul frigo sono ispirate alla mia storia personale. La grande discussione sulla pillola contraccettiva e sulla maternità l’ho scritta pensando a cosa avrei detto io.
Eppure, a dispetto del trailer e della locandina, sei riuscita a fare un film sulla coppia e non sulla femminilità.
Sai che originariamente il film era una storia maschile? Poi in fase di scrittura abbiamo pensato di cambiare tutto. Infatti ci siamo scontrati con la trasposizione della comicità dal maschile al femminile. Ho realizzato subito che quello che fa ridere un uomo, al contrario, può diventare maschilista. Il mio co-sceneggiatore me lo faceva notare, ma io non riuscivo a vederlo, forse sono troppo emancipata da certi schemi.
Per esempio?
All’inizio il protagonista era un uomo che veniva aiutato professionalmente dalla sua compagna. Ma nella trasposizione questo significherebbe: la donna non riesce ad essere autonoma e trovare un equilibrio tra carriera e vita privata. La verità è che, quando trasponi al femminile, far ridere è molto più difficile.
Quindi quali erano le tue condizioni per fare una commedia non-romantica?
Ho chiarito che non dovevano aspettarsi, siccome sono un’autrice donna, che raccontassi il femminile. Io volevo raccontare una storia di persone, non di cliché alla Sex and the City. Per carità, ce lo siamo visto, ma adesso andiamo oltre. Io come donna ho dovuto litigare per avere Sky Sport e seguire il tennis. E la grande fortuna è stata che Anna incarna e condivide questo tipo di femminilità, elegante ma semplice.
Anche esordire con Matteo Rovere e Groenlandia è stato un bel vantaggio.
Sì, loro sono una macchina da guerra. La fase di scrittura è stata faticosa, intervengono molto e il risultato si vede. Sono giovani, puntano sui giovani, sono aggiornati e investono in progetti originali.
E investono anche nel budget. Com’è stato lanciarsi in un’opera prima senza il cappio al collo dei tagli, delle rinunce e dei compromessi?
Ci credi che io non ho la più pallida idea di quale sia il budget del mio film? Se finisce il budget per le musiche, ma Matteo è contento di come è venuto il film, allora ti dà del budget extra. Se qualcosa nel girato non funziona, investono anche per farti recuperare qualche giorno di riprese.
Figlia di padre regista e sceneggiatore. Ma è vero che non trovavi il coraggio di scegliere la regia?
Sì. Mio padre, prima di entrare all’Accademia Silvio D’Amico, si è laureato in Legge. Gli sarebbe piaciuto un percorso simile anche per me. In una famiglia normale, se un figlio gira un cortometraggio a 12 anni magari i genitori gli danno un grande credito. I miei invece erano abituati, quindi non mi hanno mai né esaltata né demotivata. Ma li preoccupava il fatto che questo mestiere comporta molte delusioni, soprattutto all’inizio. Così ho smesso di fare cortometraggi, e ho avuto il primo momento di crisi a 15 anni.
E lì hai iniziato a fare la fotografa.
Sì. La fotografia è stata la prima cosa tutta mia. È un lavoro più immediato, vedi presto dei risultati e puoi confrontarti con il tuo processo di crescita. Le sono grata, perché mi ha aiutata a superare le frustrazioni tipiche dell’inizio di una carriera. È grazie alla fotografia se mi sono iscritta al Centro Sperimentale di Cinematografia, sono entrata a vent’anni. In quel momento mio padre ha capito, ricordo che mi ha portato un mazzo di fiori. Pensa che quando ero piccola lui faceva i cartoni animati italiani, La gabbianella e il gatto, Totò Sapore, Pinocchio… A scuola ero la figlia di Marino, andavo su un set ed ero la figlia di Marino.
I detestatissimi “figli di”. Invece che si prova, a stare dall’altra parte?
Per fortuna ho ereditato il gusto del raccontare. Sono cresciuta dove anche l’aneddoto sul supermercato o le favole della buonanotte diventavano un gioco di fantasia. Mio papà non ricordava mai il finale di Furia cavallo del West, così ogni sera ne inventava uno diverso. Ma sentivo che la passione per il cinema non mi spettava fino in fondo. Io mi sono sempre sentita in colpa. In classe ero madrelingua, sapevo tutto del mestiere. Le competenze tecniche, il gergo del set, gli obbiettivi, le maestranze. E pensavo: «I miei compagni invece si stanno facendo un culo enorme per imparare tutto da zero».
Con gli insegnanti andava meglio?
Ricordo che una volta Luchetti stava valutando una mia sceneggiatura, e lui rifuggiva i cliché in maniera compulsiva. Io ne avevo usato uno. «Questo mi ricorda un film di Sergio Rubini, La stazione», mi disse. Io lo guardai: «L’ha scritto mio padre… Dev’essere un difetto di famiglia». Lui giustamente non ci aveva pensato, ero un’allieva al pari degli altri.
E poi? Quando hai fatto pace con l’idea di voler essere una regista?
Emancipandomi. Quando ho capito che avevo una cosa mia, una certezza che nessuno mi poteva togliere, non ereditaria. Mi ero conquistata la fotografia e quindi potevo tornare a pensare a quello che in realtà sognavo di fare fin da piccola.
Ma gli uomini lo stanno guardando il tuo film?
Sai che dagli uomini ho ricevuto commenti entusiasti che non mi aspettavo? Credo sia merito anche di Alessandro Tedeschi, tira fuori un tipo di “fragilità del maschio” incredibile. Solo se hai avuto una relazione lunga e intensa raggiungi quella fiducia. C’è chi sta insieme e non si è mai visto piangere. Raccontando un uomo che arriva ad aprirsi così, Alessandro racconta anche il vero amore di cui parlo nel film. E invece temevo che gli uomini avrebbero detto: «Che palle, voglio vedere John Wick». Anche io voglio vedere John Wick, ti dico la verità, vorrei fare cinema d’azione. Ho un animo coatto che prima o poi uscirà.
Be’, in Blackout Love non ci sarà l’action, ma c’è una bella battaglia fra sessi. Pensi davvero che l’amore sia una guerra?
Credo sia anche parte del processo d’emancipazione femminile. Penso che questa libertà che finalmente noi donne abbiamo, di poter fare quello che vogliamo, spaventi un po’ tutti. È sempre un’affermazione del proprio io, da entrambe le parti. E alla fine? Non ci si ascolta.
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intervista su Vanityfair di Mario Manca